Natale 1861. Il venticinquenne cappellano di Tombolo, Giuseppe Sarto, predica nel duomo di Cittadella (Pd).
L’incipit è da grande oratore, lo stile è aulico ed altisonante.
Ecco finalmente compiuto, o Signori, il grande avvenimento. Il Redentore, l’eccelso, l’ammirabile, il forte, che fin dal principio del mondo ai padri nostri infelici veniva promesso, il figurato da tante ceremonie che formò per sì lungo tempo la dolce speranza dei Patriarchi, la cui lontanissima immagine dipingeva loro sul volto l’allegrezza e il contento, quel Messia che fu per quaranta e più secoli l’oggetto delle mire di tanti Profeti, che sull’arpe fatidiche ne cantaron l’origine, ne benedirono i fini, ne esaltarono le glorie e i trionfi, quegli insomma che dee frangere le nostre catene, conquidere i nostri nemici, farci sorgere alla grazia e ricondurci all’eredità del Signore nacque finalmente alla vita e Angeli, nella scorsa notte dal Cielo discesi, recarono la felice novella a innocenti pastori che ci assicurano di averlo veduto e d’avergli ancora prestato e adorazioni ed omaggi.
Prima di introdurre il tema si lascia trascinare dall’enfasi:
Esulta, o mio cuore, e gioisci che almeno una volta ti è dato seguire l’esempio di quei grandi maestri nella eloquenza che la virtù principalmente voleano dipinta, onde ne restassero alle dolci attrattive i X.ani invaghiti. Esultate, o fedeli, che, tolte come spero, non già per mio merito ma per la grazia divina, le male erbe che pullularono in questo mistico campo, io vengo sollecito a piantarvi una sola semente, ma tale che produrrà senza dubbio i più rigogliosi raccolti e farà lieto al tempo delle messi il sovrano padrone della vigna.
Lo stile ricercato lascia il posto ai ragionamenti. Il tema affrontato è: L’umiltà nel giorno del Natale.
L’umiltà è un argomento che ritorna spesso nelle prediche di Giuseppe Sarto. Ci si spetterebbe una disanima da un punto di vista morale e della casistica. E invece propone una lezione di profonda cristologia e di raffinata filosofia: a fondamento della Redenzione e della dottrina Cristo sta l’umiltà: la virtù la più oscura ed ignota ed insieme la più gloriosa.
Ma chi saprebbe ridirmi quali fossero gli alti motivi che trassero il divino Unigenito ad una umiliazione sì straordinaria? Voi non ignorate, o Signori, ch’egli è questo il primo giorno che porta a Israello Redenzione e salute, e X.o coll’umiltà volle darne il felicissimo augurio. E poiché m’è dato di tenervi in sto giorno parola, vo’ appunto dimostrarvi come X.o comincia la Redenzione, promulga la sua celeste dottrina ponendo a fondamento dell’una e dell’altra la virtù la più oscura ed ignota ed insieme la più gloriosa.
Il Sarto fa proprie le considerazioni di Enrico Domenico Lacordaire:
Il primo e più naturale oggetto della conoscenza dell’uomo è se medesimo, il primo suo sguardo cade sempre sovra se stesso ed è pure sovra se stesso ch’egli ritorna. Potrà l’uomo dimenticare ogni cosa, sconoscere Iddio, non curar l’universo, potrà sragionando chiamar effetto una causa, da sè nato un prodotto, potrà solitario odiando la luce distaccarsi da tutto che nel mondo ha vita e esistenza, ma non potrà mai disgiungersi da se medesimo, dimenticare se stesso, che sempre sarà forzato a formare di se un giudizio, un sentimento il quale, essendo a contatto della volontà, è la norma che regola le nostre azioni. E qual è, miei Signori, dell’uom decaduto il sentimento? Io apro, diceva un celebre apologista moderno, io apro tremante il cuore dell’uomo e vi leggo a grandi cifre segnato ch’egli si ama, ma si ama più d’ogni cosa, sovra ogni cosa, si ama fino all’orgoglio, fino a voler essere il primo e l’unico primo. Dal momento infatti che Lucifero gli fea concepire quel fatale pensiero che mangiando del pomo avrebbe con Dio gareggiato, fu sempre questo il grido della natura corrotta, né con tale principio si terrebbe pago il cuore dell’uomo se non allora che, misurando con uno sguardo tutto che lo circonda, non trovasse che il vuoto e al di là un più lontano possibile, un mondo genuflesso per adorarlo.
È impossibile comprendere l’umiltà col solo lume della ragione, perché sarebbe lo stesso che andar contro a quella natura voluta col peccato, ed era necessario che Dio stesso togliesse all’uomo lo spirito ch’è in lui dominante, concedendogli il proprio.
Siccome egli è impossibile affatto che l’uomo ritrovi nel mondo uno spettacolo che risponda alle sue orgogliose illusioni con quanto sdegno ei può concepire, non fa che, invidiando, odiare quelli che in alto seggio si trovino e iniquamente machinare alla loro caduta per sollevarsi sulle loro ruine, e dopo d’aver fatto sue prove nell’odio e nell’invidia spicca fra le lascivie della voluttà, novera il danaro dell’avarizia, sfavilla negli occhi dell’ira, segue gli agi della mollezza, e dopo questo, gavazzando nel sangue ch’è il suo alimento, si abbandona a tali bassezze ch’è vergogna per l’uomo perfin concepire.
…
E non avea io dunque tutta la ragione di dire che tal virtù, ignota affatto agli antichi Gentili, è tutta propria del X.anesimo? [cristianesimo?]Erano bensì famosi pel possesso d’altissime dottrine, apparate alle scuole della Grecia e del Lazio, quei filosofi dei bei secoli di Augusto e di Pericle, che sì alto levarono il grido del prodigioso loro sapere, che tanti avean lodatori quanti numeraron discepoli, ch’erano tenuti in conto di oracoli, ma dessi celebrarono e forse al par nostro la prudenza e la giustizia, la temperanza e la fortezza, predicarono ancora il dispregio del mondo e de’ suoi beni, ma la vera umiltà non conobbero, che è impossibile affatto col solo lume della ragione il comprenderla, perché sarebbe lo stesso che andar contro a quella natura voluta col peccato, ed era necessario che Dio stesso togliesse all’uomo lo spirito ch’è in lui dominante, concedendogli il proprio per cui, se dice l’Evangelio ch’è impossibile che noi ci rendiamo maggiori di noi stessi, io oso dir di rincontro che s’accresce a mille doppi la difficoltà, se volessimo da noi stessi renderci piccoli ed umiliarci.
Il giovane cappellano approfondisce la lezione di Lacordaire e propone la sua visione cristologica. Solo Cristo concede all’uomo lo spirito di Dio. Da soli non possiamo renderci maggiori di noi stessi, ma da soli non siamo nemmeno in grado di renderci piccoli ed umiliarci.
La predica continua esaltando l’umiltà:
Ma quantunque sia la fede la prima delle teologali virtù, il sostegno della Religione X.ana, la porta per cui si entra nella Chiesa dove solo avvi salute, ha bisogno peraltro d’un’altra virtù che a lei schiuda l’ingresso del cuore e a lei lo prepari. L’umiltà atterra i monti, appiana le valli, toglie gli ostacoli, accieca per così dire il nostro intelletto e tutti i lumi naturali ella estingue per cattivarli al giogo della fede. Bella è la speranza, ma è inferma la speme senza l’umiltà che sieda tra essa e il timore così che sapientemente ella confidi ed abborra da una temeraria arroganza. Bello finalmente è l’amore, ma senza l’umiltà è non solo manchevole ed imperfetto, ma prepara in questa unione un terribilissimo scisma, così che se dir non si puote che sia l’umiltà di tutte le virtù la più bella, ella è peraltro di tutte la base ed il fondamento.
Togliete pure da un cuore X.ano [cristiano] l’umiltà ed eccovi l’asprezza della vita degenerare in ipocrisia, la contemplazione in ingannatrice apparenza, delle ricchezze il disprezzo in cinico fasto e vanità. Togliete l’umiltà ed eccovi il ritiro degli anacoreti, le austerezze dei solitari, il rigore dei penitenti, lo zelo degli Apostoli, i tormenti stessi dei martiri fatti gioco e trastullo degli uomini del paro che dei demoni. È dall’umiltà che trae origine la conoscenza della nostra miseria, la gratitudine quindi pei benefici divini. Sono frutti di questo misterioso giardino la pazienza nelle avversità e negli infortuni, la dolcezza nel mutuo commercio coi nostri fratelli, la concordia, la pace nel mar tempestoso delle umane discordie, di tanti intricati dissidi. Tant’è l’eccelenza di lei che, dov’essa veramente annidi, non andrà guari di tempo che i difetti stessi più gravi si convertiranno nel cuore in materia delle virtù più eccelenti, dov’essa a nostra grande sventura si allontani, siccome è pessima la corruzione dell’ottimo, così non solo le virtù si cangieranno in vizi, ma diverranno dei vizi stessi più scellerate, e siccome è l’umiltà della Religione il fondamento, così del suo difetto sarà conseguenza assoluta l’apostasia dalla fede.
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Perché invano l’umiltà si dissimula. Non è mai nube che tutta possa oscurare la luce del sole, che anzi come più bello ne appare il di lui raggio se avvien che lo divida e fuor ne trapassi, quanto più la gloria si fugge e maggiormente essa ne assedia e ne persegue perché si gode il Signore di eludere le arti e le precauzioni degli umili e di rendere più chiare del giorno quelle virtù che dessi si studiano di maggiormente nascondere allo sguardo dell’uomo.
Nella parte finale della predica il Sarto riprende lo stile aulico:
O umiltà, virtù santa del Paradiso, di Dio figlia purissima, quanto sei amabile e cara! E chi vi ha di voi che rapito non sentasi alle prerogative sublimi, chi che di seguire non brami questa ancella divina che, quantunque spregiata ed abbietta, cotanto c’innalza e ci solleva? Ah tutti mettiamoci sotto quel vessillo glorioso, tutti stabiliamo nostra dimora dell’umiltà nel tabernacolo santo
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Coll’umiltà saremo veri X.ani [cristiani] avendo a nostro corredo le virtù le più elette, perché è dessa non solo di ognuna il principio, ma il sale ancora che tutte le conserva. Coll’umiltà saremo un altro giorno partecipi della gloria celeste che non si dona soltanto, come accade bene spesso della gloria terrena a quelle aquile generose che penetrano le nubi coi loro pregi inarrivabili, ma è data ancora alle semplici colombe che radono il suolo e sanno gemere sulle loro imperfezioni. Siate umili adunque e sarete perfetti, siate umili e sarete gloriosi perché qui se humiliat exaltabitur.
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