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Una contrastata relazione sentimentale di fine ‘400: Caterina Bossina e il nobile Boneto da Campretto

Delle tante vicende amorose contrastate che si verificarono nel territorio della Serenissima, di poche è rimasta qualche traccia nei documenti. Una di queste è senz’altro la complicata relazione sentimentale che vide come protagonisti una povera ragazza proveniente dall’est europeo e un rampollo del nobile casato dei da Campretto. Membro di una casata che era riuscita a ritagliarsi spazi fra Campretto di S. Martino di Lupari, Treville e S. Andrea Oltre Muson (TV) approdando a Treviso.[1]

I contorni della vicenda emergono dalla copiosa documentazione che contrappone due rami della famiglia da Campretto: quello legittimo, disceso dai fratelli di Boneto, e quello considerato illegittimo disceso da quest’ultimo e Caterina Bossina. I numerosi processi che si occuparono della vicenda trascinarono per decenni la storia della coppia attraverso tribunali civili ed ecclesiastici, fino ad arrivare a Roma, dove si pronunciarono anche i giudici pontifici.

Fratelli coltelli

In questa sede ci soffermiamo sul processo celebrato a Castelfranco (TV), quello che offre maggiori elementi per tratteggiare la storia di questa sfortunata coppia, aprendo interessanti squarci sulla vita e le istituzioni presenti fra ‘400 e ‘500 nella podesteria castellana. E’ un processo chiaramente favorevole a Cristoforo da Campretto, nato nel 1474, che con le testimonianze che fa produrre intende scalfire le deposizioni raccolte in precedenti processi dai cugini antagonisti celebrati nel 1508.

Il 14 febbraio del 1512 iniziano a Castelfranco gli interrogatori dei testimoni presentati da Cristoforo, figlio naturale di Boneto da Campretto e Caterina. Il primo teste convocato è Zaneto Ceserato, da S. Andrea O/M, che prima di deporre giurò nelle mani del giudice delegato e pievano Matteo de Zachis. Il Ceserato modifica parzialmente quanto avevano deposto nel 1508 i testimoni inoltrati da Elisabetta da Campretto, dichiarando che Caterina Bossina visse sempre con Boneto non solo nella sua residenza di S. Andrea, ma anche in quella di Treviso perché la “amabat et diligebat valde”.

Il testimone continua la deposizione raccontando che qualche tempo dopo l’arrivo della Bossina in casa di Boneto a S. Andrea, rimase incinta come egli stesso ebbe modo di vedere nelle sue frequenti visite all’amico Boneto. Prima che Cristoforo nascesse, il da Campretto aveva promesso di sposare la concubina com’era stato riferito al testimone da due domestici di Boneto che si chiamavano Zanantonio Bortholuffo e Franzoso.

Il Ceserato racconta che una sera fu invitato a cena in casa di Boneto il rettore della parrocchiale di Treville, tale pré Andrea. Questi raccogliendo il pianto amaro di Caterina si turbò chiedendole quali fossero i motivi di tale rattristamento. La donna rispose che Boneto le prometteva sovente di sposarla, ma non si decideva mai a compiere il passo. Allora Boneto da Campretto di fronte al prete e a numerosi altri commensali promise ufficialmente che avrebbe mantenuto quanto aveva solennemente garantito e così fu. Il matrimonio fu celebrato alla presenza del sacerdote amico, che assunse anche il ruolo di testimone di nozze (compare d’anello) e la cosa fu risaputa a S. Andrea e in tutti i paesi limitrofi.

Non appena la notizia fu riferita a Vendrame, fratello di Boneto, questi si arrabbiò moltissimo e mandò a dire agli sposi novelli che li avrebbe uccisi entrambi. Secondo il testimone la vendetta si sarebbe scagliata sulla coppia perché “Bonetus erat vir simplex et timidus, praefactus vero dominus Vendramus erat sagax et astutus”. Quindi Caterina, per volere del marito, fu costretta a nascondere l’anello nuziale e a occultarsi nelle case di S. Andrea per “aufugeret ex manibus dictorum magistri Vendrami et consanguineis”.

In ogni caso tutti sapevano che Cristoforo era figlio di Boneto, perché l’aveva più volete affermato parimenti alla moglie.

Il 16 di febbraio intervengono alla deposizione tre testimoni maggiormente informati sulle vicende narrate e cioè Bartolomeo Ceserato, Zanantonio Bortholuffo e Agostino da Ceneda.

Il primo dei tre conferma la deposizione del fratello Zaneto e aggiunge che egli stesso vide in una occasione giungere da Padova il magister Vendrame III con l’intenzione di trapassare Caterina con coltelli e spada, ma per fortuna la donna fu avvisata per tempo e si nascose in casa di Pedrino Gebelati. Donna Maria, moglie di Pietro Ospite da S. Andrea, gli aveva riferito poi che Caterina, nonostante tutto, era restia a occultare la fede nuziale per cui Boneto le diceva spesso “va et cavate quel anello” e lei replicava “perché voliu che lo cave, se io son vostra mogier?” ottenendo come risposta “io lo fazo per bon rispetto, per amor de mei fradelli”.

In un’altra delle visite a S. Andrea dei fratelli Vendrame e Giovanni Antonio da Campretto, mentre Caterina si era nascosta in casa di Pietro Ospite, i due congiunti, saputo il luogo dove si era rifugiata, vennero per rapirla minacciando il padrone di casa e la moglie Maria con queste parole: “Piero tu mi rendi male li cortelini per essere stato nostro habitador (= domestico), tu fai male a tegnir quella putana in casa”. Al che l’intrepido Pietro acceso d’ira prese una “stanga” mettendo in fuga i due fratelli.

Vedendo che qualcuno la difendeva, mentre il marito non faceva nulla, Caterina si lamentava spesso con Boneto in presenza di Maria, esortandolo ad affrontare apertamente e in modo definitivo la questione con i fratelli. Ma il da Campretto, atteggiandosi a novello don Abbondio, si limitava a rispondere che pazientasse aspettando il giorno in cui i beni comuni di famiglia sarebbero stati divisi senza correre il rischio di perderli. Come dire, meglio rischiare di vedere la moglie uccisa, piuttosto che rischiare di perdere le porzioni di eredità spettanti.

Quando Cristoforo nacque, tutti lo reputarono per figlio di Boneto e il teste ricorda un episodio al quale era presente che dimostra la familiarità dei da Campretto con personaggi di rilievo nel panorama economico e culturale del primo Cinquecento Veneto.

Un giorno giunsero a S. Andrea in casa di Boneto due illustri amici del nobile e cioè Liberale de Lusa da Feltre, che era parente del da Campretto, e Francesco Baratella da Camposampiero, discendente del famoso poeta e notaio Antonio. Questi, vedendo il piccolo Cristoforo gironzolare per la casa, chiesero al padrone se per caso l’infante fosse suo figlio ed egli rispose: “si che lo è mi fio legittimo” e gli ospiti replicarono “El non pol de negar che nol sia vostro fio perchè el ve somegia”.

Terminata la deposizione del secondo Ceserato, l’esaminatore delegato procede nello stesso giorno all’interrogatorio di Zanantonio Bortholuffo del fu Zanino da S. Andrea O/M.

Questi risponde alle domande del de Zachis ripercorrendo le orme dei precedenti testi, ma puntualizza meglio la scena della cena in casa di Boneto alla quale avrebbe partecipato pré Andrea. Il “plebanus” vedendo Caterina piangere le avrebbe, infatti, detto queste testuali parole: “voi pianseti perché son venuto a cena qui? Andarò via”, ma la donna giustificandosi rispose “jo non pianso per questo, ma pianso perché jo son gravida de messer Boneto, et sto come vedeti […] lui mi ha promesso de sposar et trazerme a honor, acio la creatura, che nascera, sia legitima, et che per lo advenir, et lei et mi, non siamo strazadi et malmenati da soi fradelli, et tamen non fa mai niente”.

Qualche tempo dopo, per interposizione del pré Andrea, i due furono sposati dal sacerdote che fece da compare all’anello e per la cena nuziale regalò ai novelli sposi una gallina che il teste, in qualità di domestico, andò a ritirare personalmente in canonica per poi spennarla.

Naturalmente il Bortuluffo fu uno dei pochi testimoni presenti al contestato matrimonio e perciò è in grado di ricordare alcuni dettagli della cerimonia visti in prima persona. Tra questi l’affermazione di inettitudine del parroco nei confronti di Boneto subito prima della predica quando pré Andrea esclamò: “messer Boneto me perdonati se jo non so usar troppo belle parole”, ricordando che Caterina dopo aver proferito il fatidico si, fece un “bello inchino” davanti al marito.

Nei giorni successivi al matrimonio, Caterina dovette vivere più in casa di Pietro Ospite che in quella del marito perché i fratelli di Boneto la ricercavano attivamente per ucciderla e Vendrame aveva detto al teste stesso che “El non se lo haverà per honor che messer Boneto la havesse sposada”. Vendrame con queste parole sembra voler opporsi al matrimonio più per questioni di onore familiare che per paura di perdere il patrimonio di Boneto che sarebbe passato un giorno a quel Cristoforo nato per sbaglio e per di più da una donna di infimo rango. Ma i sentimenti veri del medico emergono unanimi da tutte le testimonianze successive, egli si considerava l’uomo forte e dotto della famiglia, aveva sempre odiato il fratello Boneto considerandolo un incapace e un debole, non solo perché a differenza dei fratelli non aveva contribuito in alcun modo ad accrescere la fama della famiglia, ma ora anche perché era riuscito ad infangarla con una donna di strada.

Conclusa la deposizione è il turno di Agostino da Ceneda, che risiedeva da lungo tempo a S. Andrea O/M. 

Questo personaggio conosce poche cose riguardanti i fatti di S. Andrea, ma essendo stato al servizio del medico Vendrame a Sacile, può illustrare meglio degli altri l’indole del personaggio, dipinto dai più come astuto e vendicativo fino a uccidere. Egli conferma e ripete che ancor prima che Boneto si sposasse con Caterina, Vendrame era già a conoscenza della loro relazione sentimentale, nonostante si trovasse a Sacile come medico stipendiato da Venezia. Il suo padrone fu subito informato quando Caterina rimase incinta, come pure delle intromissioni del presbitero Andrea che spingeva perché il rapporto dei due amanti fosse legittimato con il matrimonio. Ritenendo però che il fratello non osasse arrivare a tanto, non intervenne fino a quando ebbe la conferma che il matrimonio era stato regolarmente celebrato in chiesa. Allora “ab contractu predictum (= a causa del contratto matrimoniale) minatus fuerat interficiendi ipsum dominum Bonetum et dominam Caterinam”.

Il teste seppe in seguito da donna Polonia, moglie di Giacomino Burai, che Catterina sapendo dell’arrivo in paese di Vendrame preferì abbandonare il tetto coniugale e nascondersi in alcune case del paese per non essere uccisa. A molte altre domande il cenedese però non è in grado di rispondere e pertanto il giorno successivo furono esaminati Tonino Mason da S. Andrea, Francesco Greco da Resana e Rigo da Pogiana.

Il primo dei tre conferma le deposizioni precedenti precisando ancora una volta la ferocia vendicativa di Vendrame, che voleva a tutti costi uccidere entrambi i coniugi. Il secondo teste non si discosta di molto dalla traccia delle altre versioni deposte, pur introducendo alcuni motivi originali. Si ricorda ad esempio che Caterina entrò a far parte della vita di Boneto quando i fratelli Ceserati avevano ucciso Nicolò Marcola e in quel tempo egli aveva fissato la propria dimora a S. Andrea O/M. Un giorno mentre stava passeggiando con Boneto lo sentì dire con animo accorato: “El se dise che messer Cristophoro non è fio legitimo, ma è vero bastardo […] lasé dir a chi vole Cristophoro è mio fio legitimo, et è nasudo dalla Catharina la qual secretamente jo sposai essendo gravida, acio mei fratelli non lo sapessero, et tamen da poi la hanno saputo, et cum quelli sum coruciato”.

Giacomino non è in grado di aggiungere altro perché in seguito si trasferì in località diverse e perciò lascia il posto a messer Rigo da Pogiana del fu Baldassarre, che all’epoca dei fatti era residente a S. Andrea O/M.

Nonostante l’appartenenza allo stesso paese in cui si svolsero i fatti incriminati, il testimone non è in grado di fornire alcun elemento di novità rispetto a quanto già dichiarato dagli altri che l’hanno preceduto.

Pertanto gli subentrano in rapida successione Giovanni Battista Bortholuffo e la cognata Jacoba. Secondo il parere del primo, Boneto sposò Catterina per le interferenze di pré Andrea, ma anche perché era una donna formosa e avvenente, alla quale era impossibile resistere.

Certo che i gusti personali dei testimoni convocati dovevano essere assai diversi fra loro se quelli prodotti dall’accusa, invece, avevano asserito a più riprese che Caterina era grassa e di mediocre statura. Per donna Jacoba, moglie di Zanantonio Bortholuffo e in precedenza serva di Boneto, Caterina aveva sempre dormito nel talamo coniugale di Boneto, prima e dopo il matrimonio. Riporta un episodio della quale era stata protagonista assieme alla Bossina. Un giorno, mentre le due donne stavano facendo le pulizie di casa e riassettando il letto di Boneto, Caterina disse a donna Jacoba: “messer Boneto dorme qui in sponda, et mi in calesela (= in mezzo al letto)“. Alle altre domande la donna risponde confermando i verbali precedenti e attribuendo a Cristoforo i natali legittimi di Boneto.

Villa Da Campretto, Corner, Chiminelli. Qui si consumò la vicenda amorosa fra Caterina Bossina e Boneto da Campretto a fine ‘400.

Rispetto ai verbali del processo avverso del 1508 redatti in base alle deposizioni dei testimoni presentati da Elisabetta e dai suoi figli, in quelli appena esaminati si nota il tentativo di occultare tutti gli aspetti negativi della storia personale e del dramma umano di Catterina. Con particolare riferimento al suo successivo matrimonio farsa con Giorgio Sclabone (evidentemente nullo e servito semplicemente da copertura agli occhi di Vendrame e fratelli che però non si lasciarono ingannare) e alle sue avventure sentimentali mercenarie con i vari personaggi riferiti nelle relazioni della parte avversa a Cristoforo. Si nascondono volutamente anche la misera morte della Bossina e tutta la vicenda legata ai rapporti, poi trasformatisi in matrimonio (pure questo nullo), fra Boneto e Meolda de Cesirati, per incentrare tutto il contenuto delle deposizioni sulla legittimità della nascita di Cristoforo e sulla demonizzazione di Vendrame e, più in generale, dei fratelli di Boneto. Pur essendo filtrati da una lettura soggettiva dei fatti, i verbali della difesa di Cristoforo sembrano fare luce su alcuni aspetti rilevati in precedenza anche dall’accusa, che però in quella sede istruttoria erano stati dipinti ad arte con tinte fosche. E’ il caso ad esempio delle fughe di Caterina presso varie abitazioni del paese di S. Andrea dovute al timore della vendetta di Vendrame e fratelli, che nelle intenzioni dei testi prodotti da Elisabetta si trasformano in fughe d’amore licenziose con altri uomini.

Anche la decisione di Boneto di far occultare l’anello nuziale alla moglie, per il solito timore di vendette da parte dei consanguinei del da Campretto, nelle interpretazioni effettuate dai testimoni del 1508 si trasforma automaticamente in un indizio probante che starebbe a dimostrare come il matrimonio fra i due non sarebbe mai avvenuto.

Ma chi era Caterina Bossina? Che ritratto ne danno coloro che l’hanno conosciuta?

Negli atti del processo avverso del 1508 l’ortolano Beltrame del fu Gasparo Roncini da S. Andrea O/M, rispondendo alle domande dell’esaminatore afferma che il primo incontro fra Boneto e Catterina avvenne quasi per caso, mentre questa vagabondava di paese in paese, appena trentenne, cercando qualche buon partito per accasarsi.

Giunta a S. Andrea O/M e vedendo che Boneto III da Campretto aveva una bella casa in muratura e ampi possedimenti, cercò in tutti i modi di circuirlo e di ammaliarlo con le proprie doti femminili riuscendo nell’intento, al punto che cadde nella rete tesa dalla donna, “captus fuit amore” per lei.

Caterina, detta la Bossina, dimorava presso Boneto in qualità di concubina e nel frattempo non si preoccupava di frequentare anche altri uomini, fra i quali un certo Bagoncio Moscatello che, secondo l’opinione del teste, doveva essere ritenuto a tutti gli effetti il vero padre di Cristoforo perché si vantava pubblicamente di avere avuto diversi rapporti sessuali con la donna.

Richiesto delle generalità della donna, l’ortolano dichiara che Caterina era di statura media e soprattutto “alba” cioè bionda, un particolare questo che ritornerà nelle deposizioni di tutti i giurati successivi, quasi a volere contraddistinguere un tratto somatico piuttosto raro allora e proprio per questo distintivo e simbolico. Per il testimone Beraldo spiega le origini della donna quando dichiara che era “illirica”, cioè slava e forse zingara. Era giunta in Italia passando per Venezia in tenera età perché all’epoca dei fatti, quando aveva circa venticinque anni, conosceva benissimo il dialetto trevigiano.

Secondo Bertino del fu Menego Lorenzini da Monastiero di Campretto Caterina prima di arrivare nell’abitazione di Boneto a S. Andrea, era stata concubina e domestica dei fratelli Oliviero e di Vendrame III. In un secondo tempo il terzo fratello Giovanni Antonio da Campretto l’avrebbe inviata al fratello Boneto con le stesse mansioni. Da più parti traspare dunque che Caterina fece da concubina a tutti i fratelli da Campretto e lo stesso Vendrame non si era fatto scrupoli nell’etichettarla pubblicamente a S. Andrea O/M con l’epiteto di “puttana”.

Tragica fine di una donna che aveva sognato la felicità

Prima che Catterina partorisse, Boneto la allontanò da casa propria, premurandosi però che qualcuno la sposasse e quel tale fu Giorgio Sclabone, un salariato della fattoria di Tolomazo da Monastiero, che la condusse ad abitare in un casone del padrone situato nello stesso paese nella località detta “el sboxa”. Qui nacque Cristoforo il quale fu allattato dalla madre per qualche anno, fino a quando Boneto decise di prenderlo e di accoglierlo definitivamente in casa propria a S. Andrea. Il Beraldo su questo punto precisa che Cristoforo rimase con la madre nei suoi primi dieci anni di vita circa, mentre Caterina prima di rimanere incinta era rimasta in casa di Boneto per altri due anni circa.

Le deposizioni di altri testimoni sostengono che Caterina, rimasta senza il figlio, continuò la sua vita a Monastiero assieme al presunto marito di copertura Sclabone per circa sei anni.

Stanca della vita sedentaria e di condurre una vita da serva, Caterina a un certo punto decise di abbandonato il tetto coniugale per trasferirsi per un anno nel casone di un tale Giovanni da Como che aveva conosciuto per strada a Monastiero. Questi questi era “stipendiario” ovvero un “armigero” mercenario. Dalla relazione con il soldato Caterina contrasse il “morbo gallico seu leprulae”, cioè la lebbra.

Poiché la donna era ammalata, il mercenario la scaricò a un tale Barberio da Campretto, il quale contrasse a sua volta il morbo come tanti altri di Monastiero e dei paesi vicini che in quel periodo la frequentarono come prostituta.

Ormai sfruttata da tutti, visibilmente ammalata e mezza moribonda, la Bossina fu infine caricata su una mula e rispedita al presunto marito Sclabone, il quale però non volle più sentirne parlare e pertanto la rifiutò rinviandola al mittente, cioè al Barberio. Quest’ultimo allora s’incaricò di inviare Catterina al lazzaretto di Treviso dove la donna terminò la sua sfortunata esistenza.

E Boneto?

Matteo Grossato del fu Giovanni da Monastiero e all’epoca dei fatti risiedeva in casa dei Tolomazzi ed era amico di Giorgio Sclabone, seppe che Boneto pur di fargli sposare la Bossina le aveva pagato anche la dote. Boneto, dopo aver liquidato la sua storia amorosa con Catterina, non avesse perso il vizio di frequentare altre donne del paese di S. Andrea e così fu visto più volte di notte entrare furtivamente nella stanza da letto della vedova Meolda de Cesirati, ritornata nella casa paterna dopo la morte del marito. Per ben quattro notti fu scoperto mezzo nudo e in atteggiamenti inequivocabili nel letto della vedova e così i di lei fratelli l’obbligarono a sposarla per salvare l’onore della famiglia.

Sicuramente la famiglia dei Cesirati trasse non pochi vantaggi dall’acquisita parentela con un clan economicamente più forte come quello dei da Campretto e questo motivo spiega l’iniziale tolleranza delle inequivocabili visite notturne di Boneto in casa Cesirati, quel tanto che bastava perché arrivasse il tempo di togliere le castagne dal fuoco obbligando il signorotto a sposarla.

Un altro teste, tale Giovanni Giacomo Sarto, dirà in modo più esplicito che fra gli scopritori del rapporto fra i due c’era anche Marco Zubolati da Resana e che i fratelli di Meolda videro Boneto “causa habendi rem carnalem cum ea” e perciò “fuit ab eis constrictus illam desponsare” e tutto ciò mentre Caterina era ancora in vita.

Potrà sembrare strano a qualcuno che fra i “guardoni” notturni della relazione clandestina fra il da Campretto e la vedova Meolda sia annoverato anche qualche personaggio estraneo alla famiglia. Ma tutto questo fa parte del gioco che vede come protagonista l’ingenuo Boneto. Per riuscire a incastrare il signorotto con un matrimonio forzato e sicuramente di convenienza per i Cesirati, occorrevano dei testimoni non consanguinei della donna disonorata, quindi al di sopra di ogni sospetto, e proprio per questo degni di credibilità di fronte alla gente.

Del resto i parenti acquisiti da Boneto non erano certo stinchi di santi. I fratelli di Meolda, Antonio, Giacomino e Guglielmo Ceserati oltre ad essere personaggi di rilievo nell’economia castellana[2], avevano il coltello facile. Infatti, nello stesso periodo del quale stiamo parlando, cioè gli ultimi anni del Quattrocento, i fratelli Ceserati avevano ucciso per motivi sconosciuti un tale Nicolò Marchola e il fatto doveva sicuramente essere rimasto impresso nella memoria di Boneto quando si vide recapitare a casa l’amante Meolda con l’obbligo di sposarla.

Matteo Coizan del fu Giovanni Coizani da Campretto asserisce infine che Boneto fu l’ultimo della famiglia a morire e aveva tutti molti beni a S. Andrea. Così poté lasciare al figlio naturale la propria quota di eredità che fu contesa per oltre quarant’anni dai parenti serpenti.

Villa da Campretto, Corner, Chiminelli a S. Andrea O/M.


[1] Per la storia di questa famiglia, che ebbe dimora anche a Treviso, rinvio a C. Miotto, P. Miotto, Campretto, storia di un territorio e della sua antica comunità, S. Martino di Lupari 1997, pp. 314-382.

[2] B.C.CV., Estimi, Reg. 23, 1546-1555, Monastier, 1548, i Ceserati detti indifferentemente da Campretto o da S. Andrea O/M appartenevano alla categoria dei cittadini di Castelfranco, cioè dei benestanti possidenti del castello. Contando i possedimenti propri e quelli che lavoravano per conto del ramo da Campretto discendente da Boneto III conducevano più di 56 campi nel solo paese di Monastiero.


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Un figlio naturale da buttare: Cristoforo da Campretto figlio del nobile Boneto e Caterina Bossina

Paolo Miotto
La contrastata relazione fra il nobile Boneto da Campretto
e la concubina Caterina Bossina
da C. Miotto, P. Miotto, Campretto. Storia di un territorio e della sua antica comunità,
San Martino di Lupari 1997, pp. 314-382.
 

    Come era già avvenuto alla fine del Duecento, anche agli esordi del XVI secolo la famiglia da Campretto è costretta a gestire problemi di natura ereditaria per determinare a chi spettasse l’asse ereditario conteso fra i due rami della famiglia.[1]
    La nascita del figlio “bastardus” generato dalla relazione segreta fra Bonetto III e la sua domestica Caterina non è ben accetta per ovvi motivi di prestigio familiare e soprattutto perché mette a repentaglio la pingue eredità del casato. Nel 1474 dalla relazione clandestina fra i due nasce Cristoforo II, che sarà costretto per oltre vent’anni a rivendicare le proprie ragioni dinastiche, dividerà in modo definitivo il ramo trevigiano dei da Campretto, rappresentato dai figli del defunto chirurgo Antonio Francesco I e dalla vedova Elisabetta, e quello di Sant’Andrea Oltre Muson proprio di Cristoforo II.

    L’accusa      I testimoni dell’accusa contestavano a Cristoforo i seguenti capi d’imputazione: a) di essere l’unico figlio di Boneto III, ma nato da una relazione licenziosa e illecita fra suo padre e la concubina Caterina la Bossina; b) di avere per madre concubina che il padrone non avrebbe mai sposato; c) di essere figlio certo di Caterina, ma incerto di Boneto perché la madre nello stesso periodo frequentava molti altri uomini; d) di essere stato riconosciuto per figlio da Giorgio Sclabono da Monastiero col quale sua madre era andata a vivere; e) di non essere stato riconosciuto da Boneto perché dopo la nascita di Cristoforo sposò Meolda de Cesirati da S. Andrea O/M e la condusse a Treviso, dove i due sposi vissero per vari anni; f) di non poter disporre dell’eredità di Bonetto perché dopo la morte di quest’ultimo a Treviso perché la vedova Meolda rimase nella casa del marito situata nella contrada di S. Maria Maggiore fino alla sua morte; g) pertanto Cristoforo “fuit et est incapax” di trattenere per sé l’eredità derivatagli da Boneto, che era il risultato delle precedenti donazioni ereditarie degli antenati Vendrame II il postumo e Oliviero III, che spettava di diritto alla vedova in quanto legittimi discendenti dei da Campretto.

   La difesa  Cristoforo II controbatteva alla zia trevigiana e ai cugini difendendosi di fronte al legato pontificio interpellato per l’occasione con le seguenti affermazioni: 1) il padre Boneto da buon “laicus tarvisinus” aveva conosciuto Caterina tenendola in casa propria perché la “diligebat et amabat”; 2) Caterina fu reputata e ritenuta da tutti come domestica di suo padre a S. Andrea O/M e non come una meretrice; 3) tutti in paese sapevano che Boneto provava “maximo amore” per Caterina; 4) era pubblicamente risaputo che la donna rimase incinta per opera di Boneto e che nacque Cristoforo; 5) a S. Andrea O/M questi fatti erano di opinione pubblica; 6) mentre Caterina era incinta, Boneto in più occasioni e di fronte a varie persone le aveva promesso di sposarla; 7) una sera, alla presenza del presbitero Andrea, allora rettore della chiesa parrocchiale di S. Andrea O/M, Catterina pianse amaramente essendo “pregnante […] et utero tumefacente”; 8) in quella circostanza il presbitero le chiese il motivo di quelle lacrime amare e Caterina rispose “Jo piango et son de mala voglia perché io son grossa (= incinta) de messer Boneto, et sto como mi vedeti, lui mi ha promesso de sposar et traterme da honor, aciò et la creatura che nascera sia legitima, e che per l’avenire et lei et mi non siamo astraciati et malmenati da soi fradelli, e tamen non fa mai niente”; 9) quelle lacrime e quelle parole furono proferite alla presenza di Boneto; 10) Boneto alla presenza del presbitero Andrea e di altri testimoni degni di fede promise che presto avrebbe sposato Caterina; 11) il presbitero Andrea in qualità di padre spirituale di entrambi esortò Boneto a sposare in breve tempo Caterina per legittimare la prole, per salvare l’onore della concubina e “pro salute animae suae”; 12) Boneto mantenendo fede alle promesse fatte e “amore ductus” per Caterina la sposò di fronte al presbitero Andrea e altri testimoni convenuti “pro annuli impositione digito annulari”; 13) il rito matrimoniale fu effettuato secondo il rito di Santa Romana Chiesa e in modo ufficiale; 14) il presbitero Andrea, oltre ad aver celebrato le nozze, funse anche da testimone alla consegna dell’anello di entrambi; 15) la notizia dell’avvenuto matrimonio si sparse per tutto il paese di S. Andrea e anche in quelli vicini; 16) dopo qualche tempo Cristoforo nacque nella casa paterna a S. Andrea e non in quella di Monastiero; 17) appena risaputa la notizia del matrimonio, il fratello Vendrame III si arrabbiò moltissimo e minacciò di uccidere entrambi i coniugi non appena ne avesse avuta l’occasione; 18) Boneto era un uomo semplice e timido mentre Vendrame era “vir sagax et astutas”; 19) impaurito dalle minacce del fratello, Boneto comandò alla moglie di nascondere l’anello nuziale fino al tempo in cui si sarebbero divisi i beni in comune fra i due fratelli (cioè quelli derivati dai lasciti testamentari di Vendrame II il postumo e di Oliviero III) che erano gestiti in comunione fra Boneto e Vendrame; 20) Caterina obbedendo all’ordine del marito nascose l’anello; 21) ogni volta che Vendrame o i suoi fratelli giungevano a S. Andrea, Caterina per paura doveva nascondersi nelle abitazioni dei vicini e occultare l’anello nuziale perché Vendrame la cercava per ucciderla; 22) Caterina per ingannare i fratelli di Boneto fu progressivamente costretta contro sua volontà a frequentare vari uomini del circondario e per questo si lamentava spesso con Boneto proferendo le seguenti parole: “che vol dir questo che non debba portar l’anelo, et me deba andar a sconder ogni tanto, ne ricever marito (come) se non fosse vostra mogier” e Boneto le rispondeva: “non importa questo, a ogni modo tu è mia mogier ma questo se fa per schivar scandalo e viver in pase”; 23) Cristoforo fu educato dalla madre in casa del padre; 24) Boneto e la consorte, interrogati da varie persone e in più occasioni sulla legittimità di Cristoforo, risposero sempre che egli era loro figlio legittimo e naturale; 25) tutti i fatti sopra elencati erano risaputi pubblicamente tanto a S. Andrea O/M e nei paesi vicini.

    Il compromesso conclusivo del 1530    Trascorsi molti anni nei tribunali e confidando sul decesso prematuro di Cristoforo, i cugini di Cristoforo alla fine convennero a un compromesso a loro favorevole, lasciando in disparte i testimoni, i giudici, i tribunali e gli ingranaggi della troppo costosa macchina processuale.
    Radunati attorno ad un tavolo, il 2 aprile del 1530, con la mediazione degli arbitri Baldassare Severino e Michele Pegulato delegati dal vicario del patriarca di Venezia Cesare Baccone su istanza presentata dallo stesso presule Girolamo Quirini, le parti in lizza discussero i termini della vertenza raggiungendo un accordo sottoscritto dalle parti.
    Cristoforo era riconosciuto figlio legittimo di Boneto, ma in cambio doveva dividere in tre parti la sua quota di eredità trattenendo per sé due porzioni e cedendo per nove mesi l’anno i proventi della terza ai cugini Ortensio e Francesco. Quest’ultimi promettevano di cedere a Cristoforo la terza parte del vino prodotto nei loro vigneti. La frazione di terreni che Cristoforo doveva assoggettare ai nipoti per la maggior parte dell’anno era costituita da appezzamenti coltivati ad alberi che questi aveva ereditato nel territorio trevigiano e sui quali era stata imposta una fideiussione cautelativa affinché non potessero essere per alcun motivo alienati, ceduti o venduti da nessuno dei tre da Campretto.

[1] Il saggio è una breve sintesi delle vicende della famiglia da Campretto pubblicate in C. Miotto, P. Miotto, Campretto. Storia di un territorio e della sua antica comunità, San Martino di Lupari 1997, pp. 314-382.


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Suor Maria Novello: una monaca dannata per passione

Paolo Miotto
Una monaca dannata per passione o per suggestione diabolica.
Suor Isabetta Novello da Castelfranco Veneto,
da Una storia castellana al femminile. Il monastero domenicano di S. Chiara e del Redentore a Castelfranco Veneto (1602-1808), Castello di Godego 2010, pp. 78-102.
Fra le famiglie benestanti di Castelfranco che ebbero rapporti costanti col monastero, si distingue quella dei Novello[1]. Questo illustre casato non aveva perso tempo a ritagliarsi una posizione di rilievo all’interno del monastero domenicano di S. Chiara e del Redentore, assumendone la protezione tramite avvocati, notai e influenti presenze nelle istituzioni del governo cittadino.
Una delle monache più stravaganti di questa famiglia fu suor Maria Isabetta. La vicenda di questa monaca, vissuta nella seconda metà del ‘600, rappresentò per Castelfranco un caso umano e religioso controverso che, citando il Manzoni, nacque da una vocazione impostale.
Maria Novello nasce a Castelfranco il 31 luglio 1640 dall’Eccellentissimo Signor Paulo Novello et dalla Signora Gieronima [Zanolli] sua moglie e riceve il battesimo il 6 agosto col nome di Maria Isabetta. Quintogenita di otto figli, aveva visto morire in tenera età almeno tre sorelle e il fratello primogenito, vivendo l’infanzia con le rimanenti sorelle e l’unico maschio Alessandro Giovanni Battista.
Maria era la discendente di uno dei tre rami Novello che vantava una schiera di notai e ufficiali della comunità. Il nonno Alessandro, che aveva sposato la veneziana Francesca Vavra, era notaio come il padre, e aveva ricoperto per otto anni la carica di sindaco di Castelfranco. Il prozio Giovanni Battista era un famoso pittore guerriero che amava dimorare nel podere di Ramon di Loria. Il padre Paolo era dedito all’arte del notariato come i parenti, senza trascurare la vita politica della città. Viveva nella parrocchia di S. Liberale in un palazzo posto nelle vicinanze della vecchia chiesa romanica.
E’ qui che nasce Maria, ma trascorsi i primi anni con le sorelle sotto l’occhio vigile del padre, che aveva già deciso il destino dei figli, Maria è costretta ben presto ad abbandonare quel mondo per essere avviata al monastero con la sorella Antonia Geronima.
Il monastero domenicano non doveva essere un ambiente del tutto nuovo a Maria che vi entra giovane a spesa, cioè come educanda, ma destinata alla monacazione. Qui Maria e la sorella maggiore Antonia Geronima furono educate dalle due zie monache. Maria Isabetta mantenne il suo primo nome da religiosa, mentre la sorella prese il nuovo nome di suor Paola, probabilmente in ossequio al padre.
Il cammino delle Novello è però destinato a dividersi presto perché suor Paola entra in monastero per prima e si adatta alla condizione claustrale senza problemi. Suor Maria, al contrario, la raggiunge qualche tempo dopo, ma non riesce a darsi pace e progetta la fuga. Prova ne è che nell’agosto del 1660 è registrata una spesa di 6 lire datti per nolo di cavali per cercare la detta suor Maria Novella. La monaca era scappata dal monastero diretta chissà dove.
L’evasione durò poco perché nello stesso mese furono datti per una Saradura e Tolle et fattura per la prigion per suor Maria 56 lire. Ecco quando e perché il monastero si dotò della prigione, che fu ad uso esclusivo della Novello, poiché fino alla soppressione del monastero sole lei vi entrò per due volte: la prima nel 1660, la seconda nel 1689.
Obbligata contro voglia nell’austero ambiente claustrale, lo spirito della monaca s’inasprisce sempre più a contatto con le compagne d’infanzia poste nel cenobio in attesa di raggiungere l’età del matrimonio. Per dirla col Manzoni, Maria si paragonava allora con le compagne, ch’erano ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l’invidia che, da principio, aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava. E l’odio si trasforma presto in rabbia, desiderio di vendetta, sgarbi, violenze fisiche e morali nei confronti delle consorelle.
Desiderio di libertà
Per sopravvivere Maria cerca di ricrearsi all’interno del monastero un mondo particolare fatto di prevaricazioni e trasgressione delle regole: quello che non poteva vivere con la comunità, cerca di ricomporlo nella propria cella per ricreare qualche parvenza del palazzo paterno. Non bastando nemmeno la cella, volle mantenere vivi ad ogni costo i contatti con la città perduta: un mondo frenetico, rumoroso e ricattatore, disposto a proteggerla in cambio di regali costosi, ma non a donarle quell’attenzione e quell’affetto che forse le erano sempre mancati.
Inizia per suor Maria un percorso imprudente destinato a durare molti anni. Per i suoi scopi aveva bisogno di molto denaro per garantirsi le visite frequenti dei nobili protettori e dei membri della borghesia castellana. Il suo vitalizio di appena 6 ducati annui non era sufficiente allo scopo. Per questo motivo, noncurante dei voti di povertà e obbedienza, aveva iniziato a rubare tessuti all’interno del monastero per ricavarne lenzuola, camice di pregio e vesti per adulti e bambini.
Li confezionava nel segreto della sua cella e li rivendeva in città con la complicità di donna Orsolina Revendrigola e altre sconosciute. Il denaro raccolto era investito in prestiti usurai tramite il fedele contadino Tomio da Ramon e il ricavato serviva per acquistare regali preziosi: fiori d’oro e vasi impreziositi da gemme e perle che faceva confezionare a Vicenza, spendendo anche 150 ducati per volta. Li regalava a nobili castellani definiti nel processo suoi protettori, ma anche a don Vincenzo Cesari, parroco di Campigo dal 1665 al 1688 e ad altre persone che non temevano di presentarsi mascherate e travestite al parlatorio per non farsi riconoscere.
La situazione è destinata a rimanere sepolta fra le mura della clausura per ben quattordici anni grazie alle connivenze dei protettori, finché, il 18 gennaio 1689, il vescovo di Treviso Giovanni Battista Sanudo giunge di proposito in visita pastorale nel monastero. La nuova priora suor Giustina Zaghi s’era, infatti, premurata di inviare al presule una lettera accompagnata da un fagotto fatta pervenire alla superiora da una persona anonima.
L’indagine vescovile (18 gennaio 1689) e l’interrogatorio delle monache
L’istruttoria ha inizio martedì 18 gennaio 1689, alla presenza del cancelliere Giacomo Palazzi, del promotore fiscale Pietro Novello e del primicerio e vicario episcopale mons. Marco Agazzi, nipote di Alessandro VIII e vescovo di Ceneda dal 1692 al 1710. In un solo giorno il vicario interroga nel parlatorio venticinque delle ventisette monache presenti. Rimangono escluse l’inferma suor Ottavia Piacentini e la Rea suor Maria Isabetta Novello.
La prima a essere interrogata è la priora Giustina Zaghi. Dopo aver informato il visitatore che la comunità segue la regola di S. Agostino e di S. Domenico ed è composta da ventisette monache da ufficio, due professe e otto converse, assicura che nulla vi è da eccepire sulle consorelle, fatta eccezione per la presenza di suor Maria.
La priora inizia la storia raccontando l’ultimo episodio in ordine di tempo che ha per protagonista la monaca. Il fallito tentativo di bastonare il medico, avvenuto con la complicità di due converse nel dicembre del 1688.
L’attentato fallì per l’intervento della priora che fece avvertire il vescovo. Da quel momento il medico si rifiutò di ritornare nel monastero. L’episodio colpì tutta la comunità e fece venire a galla tutto il mondo sommerso fatto di angherie e ruberie perpetrate dalla Novello negli ultimi quattordici anni. Ormai la paura s’era impadronita di tutte le monache che confidavano in qualche cambiamento dopo la nomina della nuova priora.
La superiora dichiarava che con l’arrivo della Novello erano iniziati i problemi nel monastero. Erano stati rubati molti oggetti – da poco suor Maria era stata scoperta con un fagotto che occultava otto camicie pronte da vendere – e la ribelle minacciava continuamente le consorelle con parole pesanti e volgarità giornaliere. La superiora si rifiutava di ripeterle al vescovo ch’io m’inoridisco a dirle, anche se nessuno l’aveva mai sentita bestemmiare e spergiurare. Da un calcolo accurato risultava che negli ultimi quattro anni aveva rubato 70 camicie e 17 lenzuoli de canevo e il convento rischiava la chiusura per le conseguenti perdite economiche. Inoltre nella sua cella possedeva molte cose di più delle altre, e particolarmente Quadri con soazze d’intaglio indorate.
La vice priora suor Laura Languidis, da quarant’anni nel monastero, racconta che la Novello non accettava alcuna osservazione e si accaniva sulle consorelle, colpevoli di non accettare le sue angherie, in particolare con suor Chiara Brazzalotto. Era noto l’uso arbitrario del denaro che ricavava dalla vendita abusiva di camicie che confezionava, rubando lenzuola e altri tessuti dal dispensario. Saltava le ore di preghiera comune, non rispettava il silenzio, non si pentiva pubblicamente in capitolo ed è incorreggibile.
L’anziana suor Giacinta Zaghi, che si trovava da 60 anni in monastero, dichiara apertamente di temere la Novello e di fuggire quando posso inorridita dal fatto che la suora non si comunicava dal giorno del Rosario e teneva nella sua cella vari quadri profani con le soazze dorate.
Suor Chiara Brazzalotto, da 53 anni in monastero, è indicata dalle consorelle come la vittima preferita dalla Novello perché ha la cella limitrofa all’indagata. Secondo la sua testimonianza oltre ai mobili sconvenienti d’intaglio, careghe di nogara intagliate e quadri con fiori et sante di grave scandalo, l’inquisita non si faceva scrupolo di minacciare le consorelle dicendo frequentemente tra le altre cose di ammazzarle, di abbruggiare il monasterio, di attossicarle […] poi grida, e strapazza le compagne dell’obbedienza, e le malate stesse, et il medico. Ammonita più volte dalla priora, ha minacciato e strapazzato chi gl’ha fatto l’ammonitione sino nella vita. La monaca chiude l’interrogatorio dichiarando che l’imputata ha dismesso il buon uso di dimandar sua colpa con accusa de falli particolari, come si faceva avanti, e commanda la Regola.
Suor Caterina Preti, da 47 anni in monastero, ribadisce le asserzioni delle consorelle. Aggiunge che oltre alla biancheria ogni 3° giorno manca delle mobilia in monasterio, inoltre vi era una gestione poco oculata delle doti conferite dalle professe perché in alcuni casi i parenti preferivano trattenere il capitale e versare alla camerlenga solo i periodici interessi.
Le tre monache di casa Riccati (Caterina, Candida e Maria Geronima) lamentano infrazioni al voto di povertà per i doni di fiori d’oro e perle, che la Novello regalava a chi voleva nel parlatorio. L’accusano di intrattenere rapporti con persone estranee al monastero, prestare denaro ad usura ricavando 100 denari de’ piccoli d’interessi da Tomio da Ramon, di avvalersi della complicità di dona Orsolina per smerciare certe camisette con notabile pregiudicio per quello si ricava dalla sua Biancheria. Suor Maria Geronima in particolare si sofferma sul clima di terrore instaurato da suor Maria nel monastero perché tutti vivono con gran spavento, anzi che le monache si guardano di caminar sole e per amor di Idio che si rimedii acciò non venghi così malamente dispensata la robba del monasterio, altrimente deventaremo in poco tempo senza biancaria. La monaca arriva persino al punto di paventare che le monache spaventate, se venisse fuori di prigione, dubitando di peggio, minacciano di voler uscir dal monasterio, et andar alle proprie Case.
Suor Vittoria Preti, monaca da 28 anni, ricorda doni di vasi con fiori di seta, oro e perle senza permesso della superiora e lo scandalo della cella diversa da quella di tutte le altre monache, assolutamente in contrasto con le regole di clausura. Di recente aveva donato due vasi di fiori di seta, d’oro e di perle a una nobile veneziana, del valore di 100 ducati. Ritiene di poter affermare che almeno il voto di castità non doveva averlo infranto ed esprime un pensiero rivelatore sulla percezione che la Novello aveva della propria condizione di monaca: pretendendo vanamente che la sua professione sia nulla.
La veneziana suor Margherita Bertoldi, da 36 anni nel monastero e addetta alla portineria, racconta di aver rischiato la vita. Riferisce al delegato vescovile: mi è successo alcuni giorni sono che [la Novello] mi volsi dare con cortello su la testa e poi per farmi dispetto andò nella mia cella, e mi rovinò e buttò in pezzi alcuni Pitari di viole. Quand’era drappiera, dodici anni prima, le erano spariti due paia di lenzuoli e la priora suor Chiara Brazzalotto era riuscita a far ammettere alla Novello che ne aveva ricavato camicie da vendere.
La quarantaseienne suor Serafina Languidis precisa che la Novello si recava a recitare l’ufficio in coro e a pregare in refettorio non più di sette volte l’anno, mentre doveva farlo tutti i giorni. Si confessava e comunicava tre, quattro volte l’anno. Tanta negligenza derivava dalla noncuranza, ma anche dal fatto che per riuscire a confezionare l’abbigliamento da vendere, doveva trascorrere molto tempo a cucire. A differenza delle consorelle, la Languidis è persuasa che le chiavi del Portone de’ fuori siano mal conservate, lasciando intendere che suor Maria non osservava del tutto la clausura. Minaccia sempre le monache con volerle attossicare, voler dar fuoco al monasterio, et ingiuriar tutte le monache e tal volta si viene anche a’ i fatti. Del venire alle mani suor Serafina ricorda due episodi dei quali fu testimone. Il primo la riguarda in prima persona: a me m’ha dato un tovagliolo nel mena mano mentre eravamo in Refettorio nell’ingratiamento. Il secondo interessa suor Margherita Bertoldi che prima è pesantemente offesa, anche riguardo i suoi parenti, e poi attaccata dalla Novello che gli ha voluto dare un cortello ne la testa.
Suor Virginia Zorzato, da 27 anni in monastero, afferma di aver visto la Novello nel coro e nel refettorio solo nelle solennità. L’ultima volta che la ribelle si era comunicata risaliva alla festa del Rosario e in quell’occasione disse alla priora che credeva d’haver fatto un sacrilegio per essere piena di rabbia, in ogni caso sempre brava, strepita, et ingiuria le monache. Richiesta del contenuto di queste offese, suor Virginia risponde: le parole sono ingiuriose, infamatorie, sporche, et obscene. I dispetti erano frequenti e la Zorzato ne racconta uno di singolare: una mattina in Coro [si] levò i moccoli impricciati [dal naso], e li tirò per dispetto dietro le monache li detti moccoli impricciati, e ciò per scusa di un poco di fummo che andò alla sua banda a causa di una candela spenta male dalla sagrestana suor Francesca Franceschi che la mattina dopo – ne l’hora di disnar – fu aggredita dalla Novello. Interrogata sulle intenzioni della comunità monastica risponde senza mezzi termini: o lei o noi per la salute delle anime nostre.
Suor Angelica Barbarella, giovane monaca di 38 anni, è meravigliata dal fatto che la Novello si presenta in refettorio solo per mangiare, mai alle benedizioni e ai ringraziamenti previsti dalla regola domenicana. La prigioniera si era scontrata il giorno di S. Giovanni con suor Virginia Zorzato affermando che li vuol tagliar il naso perché essa ha il naso in parte longo […] che pare che il demonio la inciti. Era stata informata dell’assalto notturno a suor Maria Brazzalotto: fece tanto streppito col buttar scagni nel muro o’ paredo […] che fu di gran scandalo in quella parte del dormitorio, ma si consolava di dormire in altra parte, e lontano dalla Novello. Il danno d’immagine al monastero però non si era potuto fermare l’affare del medico era stato spifferato in città e il resto era stato spiattellato dal nobile Lorenzo Piacentini con sua moglie, et altre gentildonne e altra gente che erano presenti alla scena del fallito attentato in parlatorio, in soma un gran scandalo. La monaca esorta il vescovo a risolvere la questione perché più tosto che sentir quelle fauci d’Inferno, mi contentaria di star [nelle] preggioni, o’ andar Capuccina.
Suor Elena Parisotto, indicata come vittima e nello stesso tempo protettrice della Novello, si trova in monastero da ventiquattro anni pur avendone solo trentasette. Alle domande risponde in modo evasivo, asserendo spesso di non saper cosa dire.
La sentenza
Il giorno successivo, di fronte al capitolo monacale riunito, il vicario Agazzi dopo aver elencato le colpe della Novello, pronunciava la seguente sentenza a nome del vescovo:
Che suor Maria Novella vadi nella carcere del monasterio o’ in altro luogo loco Carceris, sicuro, serrato, et ciò per comando di santa obbedienza; alche se non volesse temerariamente obbedire, sii sforzata, et vi stia sino ad’altra provisione, et ordine di Monsignor Vescovo Reverendissimo sudetto, ne’ da quella possi uscire per qualsivoglia causa, neanche per brevissimo tempo; incaricando la madre Priora di tenere le chiavi della Priggione ben custodite, ne’ permettere che alcuna monaca si accosti alla medesima fuorché, quella che sarà da lei deputata per somministrargli il Vito, e le cose necessarie. Dichiarando inoltre che se qualche monaca si accosterà a’ ditta Priggione, o’presterà favore, agiuto in qualsivoglia modo a’ ditta suor Maria Novella per atione della stessa si intendi morta nella pena d’essere Lei serrata in cella a’ benepalcito di Monsignor illustrissimo, et reverendissimo vescovo medesimo. Comandando finalmente che li quadri con soazze doratte che sono nella cella di suor Maria Novella siano portati nella Chiesa esteriore del monasterio, et li altri mobeli della medesima siano salvati a parte dalla madre Priora, e tutto ciò provisionalmente sino ad altra risoluzione, che piacesse fare al detto Monsignor Illustrissimo, et reverendissimo vescovo.
Suor Maria Novello finì dritta nel carcere del monastero, probabilmente accompagnata a forza in attesa che la severa pena e il cappellano del monastero riuscissero a domare la religiosa, farla rinsavire e riprendere il normale stato di vita claustrale dopo una pubblica ammissione di colpa in refettorio e una lettera al vescovo. Fu tutto invano e il cappellano don Piero Pulcheri fu costretto a scrivere al vicario vescovile: riscontro un’insuperabile difficoltà. Questa è la ferma, anzi dura risolutione della Madre Suor Maria Novello di non voler accostarsi alli Santissimi Sacramenti; se prima udita dal prelato non viene dichiarata inscente, e liberata dalla presente mortificatione.
Non restava che cacciarla da castelfranco e trsferirla altrove. Ma dove fu relegata, i documenti non lo dicono.

[1] Testo riadattato da P. Miotto, Una storia castellana al femminile. Il monastero domenicano di S. Chiara e del redentore a Castelfranco veneto (1602-1808), Castello di Godego 2010, pp. 78-102.

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