Chi nell’Alta Padovana e nella Castellana non ha mai sentito proferire dai propri nonni o genitori la popolare sentenza: “Samartin, Tomboeo e Galiera a xé tutta na manega da gaera”? A questa si aggiungono poi variabili come: “Samartin, Tomboeo e Galiera a xé tutta na manega da gaera, Sitadea xé so sorea e Casteo so fradeo” e altre ancora che coinvolgono anche altre località, rigorosamente in rima. Questi modi di dire hanno tutti un’identica origine che risale al medioevo e sono il riflesso di un’epoca ricca di divisioni territoriali.
In seguito alla costruzione delle due potenti fortezze murate contrapposte di Castelfranco (fine XII secolo) e Cittadella (primo ventennio del XIII secolo), il destino del territorio compreso fra le due filiali di Treviso e Padova mutò destino. Nel mezzo vi era l’ampia zona della pieve di S. Martino di Lupari che comprendeva vari villaggi, i principali dei quali erano Galliera, Tombolo e Abbazia Pisani. Il pomo della discordia era sorto dal tentativo di entrambe le cittadine di impadronirsi del territorio della pieve, che cadeva proprio in territorio luparense, sul confine approssimativo segnato dall’andamento del corso d’acqua Vandura. Qui, dai tempi della centuriazione romana, vi erano i pascoli comuni e la zona boschiva di cui tutti si servivano secondo regole prestabilite. Il nuovo quadro politico marca le differenze con continui soprusi e violenze che nel 1295 sfociarono in un’annosa vertenza fra i sanmartinari.
Le turrite mura di Cittadella.
Fu così che nella primavera dell’anno successivo si passò dalle parole ai fatti, con furti di animali e omicidi che provocarono il bando dei cittadini trevigiani dal territorio cittadellese. I trevigiani sulle prime pensarono di vendicarsi ma poi tentarono la strada della diplomazia inviando ambasciatori a Padova, ottenendo così un momentaneo successo grazie all’accordo stipulato che prevedeva la nomina di giudici comuni delle due parti che avevano il compito di arbitrare amichevolmente la controversia. Fu stabilito di fissare definitivamente il confine certo fra le due podesterie ponendo delle grosse pietre in prossimità della Vandura, ottenendo come risultato una momentanea pacificazione degli animi, ma anche e soprattutto la permanente spaccatura del paese in due parti. All’interno della pieve luparense nascono formalmente i nuovi territori della Padovana, con Lovari, e la Trevisana con le rimanenti frazioni luparensi. Galliera e Tombolo continuano a rimanere nella circoscrizione padovana.
La pietra di confine fra Trevigiano e Padovano a S. Martino di Lupari.
A questo punto qualcuno potrebbe chiedersi che cosa abbiano a che fare queste vicende con il detto dal quale siamo partiti. In realtà molto perché la pace fra i trevigiani e i padovani luparensi durò poco. Entrambi i podestà furono allora costretti a emanare una serie di bandi e leggi statutarie per proteggere i rispettivi sudditi. Il modo più semplice fu bandire dalle rispettive podesterie tutti i criminali e rei. Questi oltrepassavano il confine delle podesterie a S. Martino ed erano salvi. Ne conseguiva che la Trevisana ospitava molti dei perseguiti dalla legge padovana e la Padovana dava ricetto ai fuggitivi trevigiani. Si capisce allora perché nel 1314 il podestà di Castelfranco, scrivendo al Senato veneziano, definiva il territorio di S. Martino di Lupari una spelunca latrorum, cioè una spelonca di ladri e auspicava un intervento drastico per stanarli.
Parte della sentenza del dicembre 1314.
Il 13 dicembre dello stesso anno la magistratura veneziana rispondeva al podestà di Castelfranco sentenziando all’unanimità che questi era autorizzato a cacciare da S. Martino di Lupari tutti i banditi, tanto dalla propria giurisdizione che da quella di Cittadella, sempre che il collega non ordini e decida che i banditi del distretto trevigiano siano dichiarati e si ritengano pure banditi dalla sua giurisdizione (di Cittadella). Da questo scritto possiamo ritenere che abbia origine in modo ufficiale il detto popolare da cui siamo partiti e che in breve riguardò anche i limitrofi villaggi di Galliera e Tombolo.
Chissà se questa promiscuità di teste calde è all’origine della storica vocazione commerciale della zona. Il fatto che l’adagio non sia cessato nel corso del tempo pone l’accento sulla tempra di cui sono fatti gli abitanti che vivono a metà strada fra Cittadella e Castelfranco, famosi per essere commercianti furboni, affaristi e, almeno nel passato, contrabbandieri.